Etiopia. L’iniziativa di pace Khartoum-Washington-Parigi potrebbe nascondere un radicale cambiamento di regime in Etiopia e in Eritrea.

Il Sudan si è offerto nel ruolo di mediatore tra il governo etiope e il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) con il sostegno della comunità internazionale. Una mossa diplomatica concordata con Stati Uniti e Francia che potrebbe nascondere una escalation del conflitto dinnanzi al prevedibile rifiuto del regime del Prosperity Party. Un’escalation bellica tesa ad un radicale cambiamento di regime in Etiopia e in Eritrea
Il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok, dopo la visita della direttrice USAID Samantha Power e vari consultazioni con la Casa Bianca, ha attivato i canali diplomatici con il governo etiope e i leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF) proponendosi come mediatore per portare i due contendenti al tavolo dei negoziati per discutere una soluzione pacifica alla crisi e consentire gli aiuti umanitari ai civili.
L’iniziativa sudanese bypassa l’inerzia dell’Unione Africana. Anche durante questa crisi, l’istituzione sovranazionale africana ha dimostrato la sua incapacità a giocare il ruolo di promotore della pace e unità del continente. Ruolo a cui l’Unione Africana ha abdicato nelle crisi in Libia, Burundi, Congo e nella lotta contro il terrorismo islamico in Africa Occidentale. Allo stato attuale l’Unione Africana è un carrozzone simile alle Nazioni Unite, affollato da funzionari opportunisti e corrotti, incapaci di qualsiasi azione che non sia mirata all’arricchimento personale e al rafforzamento dei propri privilegi. È ormai palese la necessità di una profonda riforma della UA, già tentata dal Presidente ruandese Paul Kagame ma all’epoca contrastata duramente dall’esercito di funzionari continentali.
La proposizione di mediazione lanciata dal Premier Hamdok ha come primo obiettivo quello della sicurezza nazionale. Il governo di transizione a Khartoum è ancora debole, dilaniato da lotte di potere clandestine tra la sua componente militare e quella civile. Anche all’interno delle forze armate vi è una profonda divisione tra l’esercito regolare e i reparti speciali delle Rapid Support Forces (RSF). Questa situazione è stata il principale impedimento per il Sudan di entrare in guerra contro l’Etiopia a causa delle contese territoriali di confine e della mega diga GERD. Una pace in Etiopia allontanerebbe il rischio di destabilizzazione della sicurezza nazionale del Sudan e ridimensionerebbe l’attuale nefasto ruolo dell’Eritrea sulla regione.
Il sostegno americano all’iniziativa è stato chiarito da Samantha Power. “Vogliamo sostenere la trasformazione del Sudan da una fonte di instabilità a un partner per risolvere le sfide di una regione volatile, più urgentemente lavorando insieme per affrontare il conflitto in Etiopia, a cui non esiste una soluzione militare”, dichiara la Power in una conferenza all’Università di Khartoum. La visita a Khartoum del Segretario di Stato americano Antony Blinken ha avuto lo scopo di ufficializzare il sostengo degli Stati Uniti all’iniziativa dotandola di una valenza e spessore internazionali.
Il sostegno giunge anche dalla Francia. Il 31 luglio, il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato con Hamdok e il primo ministro etiopico Abiy Ahmed dove ha espresso la sua preoccupazione per il continuo combattimento nel paese e ha chiamato a consentire un’assistenza umanitaria in Tigray. Macron ha insistito nell’apertura dei negoziati e del dialogo politico nel rispetto dell’integrità e unità nazionale dell’Etiopia.
Quante possibilità ha l’iniziativa di pace sudanese? Molte poche a mio avviso. Pur trovandosi in estrema difficoltà il regime del Prosperity Party sta tentando di contenere le offensive dell’esercito regolare del Tigray (Tigray Defense Forces — TDF) in Amhara e Afar per poter acquisire il tempo necessario per riorganizzare (con l’aiuto di Russia e Turchia) l’esercito federale decimato. Abiy Ahmed Ali, Agegnehu Teshager e Temesgen Tiruneh, firmando un accordo di pace con il TPLF lancerebbero all’intera nazione il segnale della loro estrema debolezza politica e militare. Questo incoraggerebbe altre etnie alla ribellione aperta e a movimenti secessionisti iniziando dalla Oromia.
Nel migliore delle ipotesi una pace con il TPLF segnerebbe la fine politica del PP. Risulterebbe assai difficile per questo partito politico privo di reale base popolare, continuare a governare il paese dopo elezioni farsa e, soprattutto, dopo aver scatenato una orribile guerra civile che non è riuscita a vincere.
Per la leadership del Prosperity Party i negoziati di pace non possono essere considerati una via d’uscita onorevole. Dal loro punto di vista è più conveniente continuare il conflitto nella speranza di perennizzarlo come in Siria se risulterà per loro impossibile vincerlo. Sedersi al tavolo dei negoziati significherebbe per Abiy l’ammissione della sconfitta e, peggio ancora, il riconoscimento del TPLF come legittima forza politica militare e non come una formazione “ribelle” e “terroristica” come la retorica nazionalista Amhara lo dipinge attualmente.
L’impossibilità di attivare le trattative di pace da parte del Prosperity Party è ben conosciuta dagli strateghi di Washington e Parigi. L’organizzazione della visita della Power in Etiopia, caratterizzata da un’alta dose di arroganza e dialogo tra sordi, è la dimostrazione più evidente che decisioni importanti sono state già prese alla Casa Bianca, al Eliseo, al Pentagono e alla NATO. Non si dovrebbe dare troppo peso alle dichiarazioni diplomatiche di preferire una soluzione pacifica affermando che la crisi etiope non può essere risolta a livello militare. Queste sono frasi di circostanza obbligatorie. I piani sembrano essere diametralmente opposti. L’annuncio dei media internazionali della liberazione da parte del TDF della storica città Amhara di Lalibela sono un chiaro esempio. Un’altra sconfitta e umiliazione inflitte ad un esercito federale demoralizzato e ormai incapace di contenere il nemico.
Aldilà delle scontate negazioni del TPLF, è evidente che l’esercito regolare del Tigray sta ricevendo grossi quantitativi di armi e munizioni che gli permettono di ottenere importanti vittorie sul fronte. Il governo di Addis Ababa ha solo sbagliato ad individuare i canali di rifornimento addossando la colpa alle ONG internazionali. I canali esistono eccome, ma Addis è stata incapace di individuarli correttamente facendo il gioco del nemico. Il boicottaggio dell’assistenza umanitaria nella speranza di impedire i rifornimenti bellici, non fa altro che peggiorare la reputazione internazionale dell’Etiopia.
Ben altri sono i piani delle potenze occidentali sullo strategico paese del Corno d’Africa. Stabilizzare l’Etiopia tramite una chiara vittoria nazionale, conservare l’unità del paese, impedire che entri nella sfera di influenza russa o turca. Ripristinare il controllo occidentale che il TPLF ha garantito per quasi 30 anni.
I dirigenti tigrini sono ben consapevoli delle reali esigenze americane ed europee. A conflitto terminato non spingeranno verso la secessione del Tigray ma verso il rafforzamento dell’unità nazionale e del sistema federalista coinvolgendo altre importanti forze politiche, in primis Oromo. Questo fa parte della realpolitik e, fino ad ora, i leader Tegaru hanno dimostrato una forte dose di realismo. La comunione di intenti tra Washington e Mekelle è talmente strutturata che entrambi concordano che la fine della crisi etiope avverrà con la liberazione dell’Eritrea dalla dittatura nord coreana di Isias Afwerki.