Etiopia. Calzedonia. Dentro i misteri di Itaca Mekelle.

Calzedonia, leader del tessile italiano, ha annunciato il 04 novembre 2020 la chiusura del suo stabilimento a Mekelle, Tigray, Etiopia a causa dello scoppio della guerra civile. Testimonianze dirette affermano che lo stabilimento è rimasto aperto, miracolosamente risparmiato dagli eventi bellici. La storia dello stabilimento Itaca di Mekelle si intreccia con la politica, inauditi sgravi fiscali e sfruttamento dei lavoratori.
Il Gruppo Calzedonia di Vallese di Oppeano, provincia di Verona è una azienda italiana proprietaria di 7 marchi legati all’abbigliamento e venduti in oltre 50 stati. Tra essi: “Calzedonia” (calze e costumi da bagno); “Intimissimi” (lingerie e intimo); “Falconeri” (maglieria); Atelier Emé (abiti da sposa e da cerimonia); Intimissimi Uomo (intimo, maglieria, nightwear, calzetteria e swimwear maschile). Il gruppo si è recentemente affacciato alla produzione vinicola italiana con il marchio “Signorvino”.
Fondata nel 1987 da Sandro Veronesi, Calzedonia è ora gestita dai figli: Marcello, Matteo e Federico. In meno di 15 anni l’azienda italiana si è imposta sul mercato internazionale anche grazie al supporto economico e politico di Nerino Grassi, di cui Sandro Veronesi ha sposato la figlia. Grassi e tra le prime 1280 persone più ricche al mondo con un patrimonio stimato nel 2020 a 2,5 miliardi di dollari. Grassi è ben inserito negli ambienti politici e governativi internazionali.
L’azienda si è inizialmente sviluppata sul modello del franchising. Ha più di 1.300 negozi in tutto il mondo nei paesi, tra cui Italia, Spagna, Repubblica Ceca, Grecia, Messico e Russia. Dal 2006 ha aperto una serie di stabilimenti in paesi del terzo mondo: Sri Lanka, Etiopia, nei Balcani: Bosnia, Croazia, Serbia e nell’est Europa: Bulgaria, Romania. Il totale dei dipendenti ammonta a 34 mila persone. Nel 2016 il fatturato oltrepassava i 2 miliardi di euro.
Nel 2018 Calzedonia apre uno stabilimento per la fabbricazione di vestiti in Etiopia destinati ai mercati italiano ed europeo: Itaca Textile PLC. Lo stabilimento è collocato a Mekelle, la capitale della regione Tigray mettendo a disposizione un investimento di 15 milioni di dollari. Lo stabilimento offre lavoro a 1.500 persone direttamente assunte. A queste va aggiunto l’indotto locale delle ditte di servizi e logistica e i fornitori di materia prima.
L’investimento rientrava nel piano quinquennale di crescita e trasformazione economica varato dal TPLF, all’epoca alla guida della coalizione di governo. Lo stabilimento Itaca rientrava nella strategia del TPLF di sviluppare 15 parchi industriali. Questa politica ha creato 10mila posti di lavoro nel Tigray. Le aziende straniere, Calzedonia compresa, attingono dai disoccupati dei quartieri periferici di Mekelle e dai villaggi poverissimi, creando un devastante processo di migrazione urbana. A Mekelle prima del conflitto, erano sorte dormitori sovraffollati per ospitare i lavoratori migrati, per la maggioranza donne.
La scelta di Mekelle è risultata “anomala”. A 100 km dalla capitale Addis Ababa, ad Adama, vi è un parco industriale tessile dove sono operative aziende internazionali come Zara, H & M e Decathlon. La località di Adama, oltre ad offrire mano d’opera specializzata, è una collocazione strategica che riduce al minimo i costi di logistica per l’esportazione. Al contrario, Mekelle è una località periferica che aumenta a dismisura i costi logistici. I prodotti possono essere esportati usando la ferrovia in Afar che porta al porto di Gibuti o giungendo ad Addis Ababa per accedere ai trasporti aerei dell’aeroporto internazionale.
Nel 2018 la scelta della località dove doveva sorgere lo stabilimento suscitò non poche domande. Perché un’azienda italiana, che ha fatto della delocalizzazione della produzione la sua arma vincente per abbattere i costi, ha scelto una località che comporta un aumento dei costi logistici per l’esportazione?
All’epoca gli ambienti politici e della società civile etiope fornirono il loro punto di vista. Calzedonia aveva aperto il suo stabilimento a Mekelle, esaudendo la richiesta della dirigenza del TPLF che intendeva bilanciare lo sviluppo industriale non concentrandolo esclusivamente ad Addis Ababa, Oromia e Amhara. Queste accuse non hanno mai trovato conferme ufficiali ma fin dal giorno della sua inaugurazione era chiaro che il progetto stava particolarmente a cuore alla dirigenza Tegaru e trovava una conveniente convergenze di intenti da parte di Calzedonia.
L’inaugurazione vide la partecipazione di alti membri del partito TPLF oltre ai rappresentanti del governo. Calzedonia e, tanto meno il governo etiope, non hanno mai reso noto l’entità degli sgravi fiscali ottenuti e concessi. Fonti etiopi affermano che l’azienda italiana avrebbe ottenuto sgravi fiscali superiori a quelli concessi ad altri investitori stranieri nel tessile, e ingenti sgravi sulle bollette delle utenze, acqua ed elettricità. Regali intesi come incentivi per aprire lo stabilimento in una località periferica etiope con note difficoltà logistiche di trasporto, che, è la madrepatria dei dirigenti del TPLF.
L’accordo prevede anche la clausola TPP (Traffico di Perfezionamento Passivo) che consente di importare materiale per la produzione ed esportare il prodotto finito senza pagare dazi doganali. Una misura perfetta per proteggere i profitti di Calzedonia prodotti dalle politiche di delocalizzazione permesse con grande miopia dallo Stato italiano con evidente danno all’occupazione giovanile del nostro paese. Il connubio tra accordi commerciali, politici, sgravi fiscali e doganali, e moderazione salariale sono la fortuna delle ditte europee come Calzedonia.
Un altro punto dell’accordo commerciale obbliga Calzedonia a prendersi in carico dello sviluppo sociale della città di Mekelle e dintorni. Dall’inizio del 2010 l’impegno sociale delle multinazionali è diventato parte integrante delle strategie aziendali al fine di offrire una falsa immagine di capitalismo dal volto umano. Di solito le multinazionali si impegnano in attività di facciata facendole figurare come importante sostegno allo sviluppo socio economico delle comunità locali.
L’impegno sociale di Calzedonia è andato oltre i minimi interventi di solito realizzati dalle multinazionali. Tramite la Fondazione San Zeno (fondata da Sandro Veronesi nel 1999) Calzedonia finanzia diversi progetti ad ONG italiane tra cui il VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo). Il lodevole impegno sociale viene offuscato dalla specificità geografica degli interventi: il Tigray. La Fondazione San Zeno finanzia anche interventi in altre zone del paese ma il Tigray rimane la regione maggiormente beneficiaria.
All’epoca esponenti della società civile offrivano spiegazioni politiche a questa seconda “anomalia”. Calzedonia accontentava le continue richieste del TPLF di progetti a favore delle comunità Tegaru in Tigray, considerate un “pizzo” da pagare per i vantaggi ricevuti, secondo gli attivisti della società civile all’epoca contattati.
I finanziamenti della Fondazione San Zeno si inseriscono spesso nella “moda” inaugurata dal governo italiano di creare opportunità occupazionali per mitigare i flussi migratori clandestini dall’Africa all’Europa, in particolare: Italia. Tutti progetti fallimentari gestiti dalla AICS che non risolvono nessuna delle cause che spingono migliaia di povere persone a rischiare la loro vita per giungere in Europa. Calzedonia e la Fondazione San Zeno sono praticamente legati ai salesiani di Don Bosco e alla ONG italiana VIS, che di fatto è il dipartimento umanitario dei salesiani anche se in teoria detiene uno statuto autonomo.
Calzedonia ha sempre dipinto il suo stabilimento a Mekelle: Itaca come un’azienda modello, dove la dirigenza offre ai dipendenti buoni salari e un buon ambiente lavorativo. Secondo un’indagine personalmente fatta nel 2019 lo stipendio elargito ai dipendenti etiopi è leggermente superiore alla media del settore. I dipendenti godono anche di assistenza sanitaria e altre agevolazioni.
Purtroppo l’idilliaco ambiente lavorativo nasconde una realtà di ritmi produttivi esasperanti e il divieto assoluto di sindacalizzazione. I nemici numero uno di Calzedonia in Etiopia sono proprio i sindacati.
Alcuni sindacalisti etiopi confermano che è praticamente impossibile sindacalizzare i dipendenti di Itaca anche a causa delle pesanti interferenze tese a scoraggiare l’affiliazione a sindacati, attuate dal TPLF e ora dal Prosperity Party del Premier Abiy.
I salari elargiti da Itaca Calzedonia sono del 60% superiori alla media ma i sindacalisti etiopi ci fanno notare che i lavoratori ricevono uno stipendio netto di 50 euro. Un costo della mano d’opera ridicolo se comparato ad uno stipendio medio di un lavoratore tessile italiano (1.250 Euro) o di un dipendente Calzedonia nei Balcani o Europa dell’Est (480 euro).
“È ovvio che per una povera madre di famiglia etiope 50 euro sono una fortuna, eppure questo salario è appena in grado di assicurare una mera sussistenza e rappresenta una palese forma di iper sfruttamento degli operai per aumentare i profitti, di cui capitali non vengono certo investiti in Etiopia ma rimpatriati in Italia. Il principale motivo della fobia nutrita da Calzedonia verso i sindacati è la paura di vertenze tese a migliorare gli stipendi. Calzedonia, come altri investitori stranieri è arrivata in Etiopia per generare profitti inimmaginabili in Italia, consapevole di sfruttare la nostra povera gente” spiega un attivista sindacale di Mekelle.
Quando la dirigenza nazionalista Amhara (tramite il fantoccio Premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed Ali) ha deciso di eliminare il suo avversario politico (TPLF), innescando una guerra civile contro il Tigray il 03 novembre 2020, anche la produzione dello stabilimento Itaca a Mekelle ne ha sofferto.
Il gruppo tessile internazionale di Verona il 4 novembre 2020 annuncia ai media italiani di aver sospeso le attività del suo stabilimento a Mekelle informando che 7 suoi espatriati sono rimasti bloccati nel Tigray mentre infuriavano i combattimenti. Cinque dipendenti italiani di Calzedonia, un tecnico italiano esterno (elettricista di Mantova) e un dipendente cittadino dello Sri Lanka, dove la ditta italiana ha altri stabilimenti tessili.
“La produzione è al momento sospesa anche per mancanza di energia elettrica. Dal 4 novembre siamo in contatto con l’Unità di Crisi del ministero degli esteri e con l’Ambasciata italiana di Addis Ababa. Siamo in contatto giornaliero con i familiari dei nostri dipendenti espatriati e contiamo di poterli evacuare con l’aiuto delle autorità italiane appena le condizioni di sicurezza lo consentiranno” affermò Fabio Comini, responsabile della sicurezza di Calzedonia al quotidiano “L’Arena di Verona”. All’epoca il ministro italiano degli esteri: Luigi di Maio aveva dichiarato di prendere personalmente a cuore la tutela dei connazionali e imprese presenti in Etiopia.
Rientrati i dipendenti espatriati, ufficialmente la produzione dello stabilimento Calzedonia a Mekelle è ancora sospesa come viene comunicato dall’azienda veronese a Panorama lo scorso 06 agosto. “C’era Calzedonia a Mekelle. Ora non c’è più.”. Al contrario sembra che lo stabilimento Itaca sia aperto e funzionante anche se la produzione è ridotta al minimo.
Ad affermarlo sono ex dipendenti Tegaru ora rifugiati nei paesi limitrofi. Secondo i loro racconti lo stabilimento Itaca è stato miracolosamente risparmiato dalla follia distruttrice del governo di Addis tesa a azzerare ogni attività industriale, agricola e commerciale nel Tigray. Mentre i soldati eritrei ed etiopi si sono concentrati a distruggere i parchi industriali della regione “ribelle” con particolare accanimento al settore tessile, le infrastrutture di Calzedonia sono state inspiegabilmente risparmiate.
Gli ex dipendenti confermano che nello stabilimento Itaca di Mekelle la produzione è stata ripresa ma non raggiunge gli standard minimi a causa delle difficoltà dettate dal taglio dell’energia elettrica deciso dal governo centrale e dal blocco stradale attuato contro la regione del Tigray.
Gli ex dipendenti confermano anche le attività antisindacali della Calzedonia. “Fin dalla sua apertura Itaca ha esposto chiaramente ai suoi dipendenti, in maggioranza donne, il suo punto di vista riguardante il diritto di iscriversi ad un sindacato. Ci è stato avvertito che l’iscrizione ad un sindacato equivaleva a perdere il posto di lavoro”.
Lo stabilimento Itaca, oltre ad essere risparmiato, avrebbe goduto della protezione militare offerta dal governo di Addis Ababa per evitare eventuali saccheggi da parte delle truppe eritree. Un distaccamento di soldati federali era presente all’interno dello stabilimento. I soldati predisposti alla difesa di Itaca erano Tegaru. Solo 2 sui 8 soldati posti di guardia erano armati.
L’esercito federale avrebbe anche segnalato ai suoi alleati eritrei di non attaccare lo stabilimento tessile italiano a Mekelle, secondo le informazioni fornite dai rifugiati ex dipendenti di Itaca. Tra marzo e aprile 2020 la direzione di Itaca — Calzedonia, avrebbe offerto alla ONG italiana VIS uno stock di vestiti prodotti tra novembre 2020 e febbraio 2021, rimasti invenduti a causa dell’impossibilità di esportarli. Questi vestiti sono stati distribuiti agli sfollati di Mekelle e altre zone della regione dove la ONG italiana opera.
Come è possibile che il regime del Prosperity Party abbia risparmiato solo Calzedonia, mentre si è accanita nel distruggere l’apparato industriale del Tigray, danneggiando senza scrupoli né esitazioni molte ditte straniere?
Tra le aziende straniere seriamente colpite durante il conflitto vi sono: la Maa Garment and Textile Factory (Turchia) con 1500 dipendenti e la Dubai Velocity Apparelz Companies PLC, 3600 operai al 95% donne. Particolare accanimento è stato riscontrato verso gli investitori egiziani. Il regime di Addis Ababa, senza sostanziali prove, accusa il Cairo di fornire armi e munizioni all’esercito regolare del Tigray e al movimento di liberazione Oromo Liberation Army. Le aziende egiziane che lavoravano in Tigray sono state distrutte e chiuse.
Il capo della zona industriale egiziana in Tigray e il vice capo della Federazione degli investitori egiziani Alaa El-Saqti ha informato che le fabbriche egiziane che investono in Etiopia hanno sostenuto perdite per circa 40 milioni di dollari. Le società egiziane hanno deciso di ricorrere all’arbitrato internazionale per rivendicare i loro diritti e chiedere una compensazione delle ingenti perdite subite.
Come mai gli accordi firmati tra il governo di Addis Ababa e gli investitori stranieri che prevedono la protezione dei loro investimenti in Etiopia, in Tigray sembrano essere applicati solo per Calzedonia mentre le altre realtà produttive sono state sistematicamente distrutte?
Come mai lo stabilimento Itaca non è stato mai considerato un obiettivo militare ed esentato da qualsiasi bombardamento terrestre ed aereo da parte dei federali, anche ora che opera in una regione dove il “nemico” TPLF ha ripreso il controllo?
Il salvataggio degli investimenti a Mekelle dei fratelli Veronesi sarebbe dovuto da un’abile attività diplomatica della ditta italiana attuata sia nei confronti delle vecchie amicizie del passato: il TPLF sia con gli attuali “padroni” dell’Etiopia: il Prosperity Party. La natura di queste attività diplomatiche è sconosciuta ma evidentemente efficace. Gli ex dipendenti informano anche delle difficoltà dei lavoratori di Itaca a ricevere gli stipendi. Calzedonia li verserebbe regolarmente ma il governo centrale ha bloccato i conti bancari di tutti i cittadini tigrini nel Tigray.
Il caso dello stabilimento di Mekelle non sarebbe isolato. Calzedonia godrebbe di grandi privilegi anche in altri paesi dove ha aperto i suoi stabilimenti. La ditta sarebbe inoltre famosa per l’opacità delle catene di fornitura che fanno il giro del mondo e la totale mancanza di trasparenza nella pubblicazione della lista dei suoi fornitori locali, come viene documentato nel rapporto 2017 della Clean Clothes Campaing (Campagna degli abiti puliti): “Europe’s sweatshops”.
Il rapporto coinvolgeva in pieno Calzedonia nella situazione di povertà endemica e strutturale delle lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento e calzature in Ucraina, Serbia e Ungheria, oltre al pagamento di salari da miseria e scarse condizioni di lavoro nelle fabbriche. Calzedonia era in allega compagnia: Benetton, Esprit, GEOX, Trimph, Vera Moda, Armani, Dolce & Gabbana, Ermenegildo, Versace.
La Clean Clothes Campaign chiese ai governi dei paesi produttori e all’Unione Europea di raffozrae la legislazione sul lavoro, fissare minimi salariali in linea con il costo della vita, adottare una politica europea coerente con le convenzioni internazionali sui diritti umani e ancorare gli accordi commerciali al rispetto dei diritti dei lavoratori, sindacalizzazione compresa. Dal 2017 non risulta che queste richieste siano state esaudite con fermezza dall’Unione Europea e tanto meno dall’Italia. Business is Business e le aziende italiane non vanno disturbate, tanto sono problematiche che riguardano lavoratori del terzo mondo…
Questo articolo si è basato su racconti e informazioni di prima mano di cui le fonti sono state ritenute affidabili. Rimango disponibile ad un eventuale intervento da parte della ditta Calzedonia qualora volesse esporre il suo punto di vista, controbattere o contestare le informazioni ricevute. L’intervento verrà ospitato in versione integrale sulla pagine del mio blog. Per contatti si prega di indirizzare la richiesta al seguente indirizzo email: fulvio_beltrami@protonmail.com